Se il manager non sa con chi parlare: la figura dell’executive coach

Executive coaching online

Avere un punto di riferimento nell’ambito del management per chi è leader diventa una questione sostanziale.
Ci sono infatti momenti durante i quali non si sa che pesci prendere per via di stress, stanchezza, tensioni, pressioni. Ciò che più di tutto ci fa perdere l’orientamento è senz’altro il mix di tutto questo. Ma chi si può permettere dirigendo un’azienda di prendere la decisione sbagliata?
Vediamo come la figura di un executive coach può fare la differenza a livello imprenditoriale quando si tratta di gestione e crescita e quali sono le domande importanti che aiutano nel ragionamento.

Se il manager non sa con chi parlare: benefici di un executive coach

Un executive coach può fare la differenza nell’aiutare i dirigenti a prendere le decisioni più appropriate per la crescita dell’azienda. In che modo un professionista esperto può aiutare un’azienda a raggiungere i suoi obiettivi o a risolvere questioni spinose?
Un executive coach può essere una risorsa preziosa per qualsiasi imprenditore che voglia portare la propria attività al livello successivo. Come mentore e cassa di risonanza, un executive coach può fornire orientamento, direzione e supporto per aiutare gli imprenditori a navigare nel mondo degli affari, spesso complesso e in continua evoluzione. Grazie alla sua esperienza nella gestione e nella crescita, un executive coach può aiutare gli imprenditori a gestire efficacemente i loro team, a identificare nuove opportunità di crescita e a sviluppare strategie per raggiungere i loro obiettivi.

Fornendo uno spazio di riflessione onesto, un executive coach può anche aiutare gli imprenditori a sviluppare le proprie capacità e competenze per diventare leader e manager migliori. In definitiva, un executive coach può essere la chiave per sbloccare il successo di un imprenditore e realizzare il suo pieno potenziale.

Business coaching: la relazione tra manager ed executive coach

Come ho raccontato in un altro post spiegando cos’è e come funziona l’ascolto attivo, imparando ad ascoltare ho cominciato a vedere tutta una serie di dinamiche che prima mi sfuggivano. Quella di cui voglio parlare oggi è questa: con chi può parlare il manager nei momenti più complessi del lavoro?

Con chi parla il manager quando deve adottare un mindset di analisi?

Non tutti gli amministratori e/o i manager hanno persone intorno preparate come loro, capaci di partecipare a conversazioni di management e capaci di suggerire le domande giuste per aprire gli orizzonti della decisione più giusta. Del resto, saper porre domande non è una faccenda strettamente imprenditoriale: posso essere un bravo gelataio, produrre dell’ottimo gelato e venderlo senza saper porre domande. Certo, posso farlo!

E se si è un libero professionista? Con chi ci si confronta? Nella libera professione bisogna occuparsi di tutti gli aspetti della propria attività e decidere in autonomia. E a volte ci sono delle situazioni su cui si gira a trottola su se stessi. Anche in quel caso avere un consulente per chiarirsi le idee, può essere un modo per andare più spediti verso l’obiettivo.

La sfera del saper porre domande appartiene dall’antichità al filosofo, allo scienziato, al pensatore tout court.

Perché un pensatore è in grado di aiutarmi? – Si chiederà qualcuno.

Mindset e ricerca delle soluzioni – Predisporre lo spazio per il ragionamento

Nella routine dell’imprenditore ho riscontrato che, mentre c’è un tempo per l’amministrazione, uno per il coordinamento degli operai, un altro per parlare coi fornitori, uno ancora per gestire un cliente importante e così via, a volte è del tutto assente “l’ora del pensiero”. Lo si fa in macchina al rientro a casa, oppure a letto prima di addormentarsi, ma ho avuto esperienza che in azienda difficilmente ci si dedica a ragionare sul problema, soprattutto se il grattacapo è di natura relazionale.

Si tende a credere che non sia così rilevante e che sia normale routine che accada. Si sottovaluta del tutto l’importanza del porsi la domanda giusta e della portata del superamento di quel determinato scenario.

Uno dei casi in cui ho contribuito alla ricerca della soluzione riguardava un rapporto amministratore-dipendente. Questo rapporto andava avanti dall’ingresso del dipendente in azienda in modo turbolento, non pacifico; una specie di scontro dichiarato da parte del dipendente. Vedeva ingiustizie dappertutto e si muoveva come un sobillatore. Normalmente questo tipo di comportamento non incontra i favori della dirigenza; più in generale non è affatto cooperativo, dunque destabilizzante.

Soltanto dopo anni dall’assunzione di quel dipendente l’amministratore ha preso la decisione di voler risolvere quell’atteggiamento e tutti i problemi a cascata che creava. Un giorno mi ha fatto la domanda:

“Cosa dovrei fare?”

Il compito delle domande chiave – Il ruolo dell’executive coach

Avere delle risposte (magari immediate) è ciò che ognuno di noi vorrebbe di fronte a un problema, ma le risposte sono personali e non credo esistano soluzioni universali ai problemi gestionali e relazionali. Comprendere uno scenario, una visione è la questione: ma la visione è personale, ovvero aziendale; di conseguenza ogni imprenditore starà dentro la propria.

Le domande hanno il compito di aiutare a trovare la chiave: il leader stesso poi provvederà ad aprire. Porre delle domande che attivino il ragionamento, “innescandolo”, può generare “un’oasi sul monte” da cui si riesce ad avere una vista migliore.

3 sono state le domande che ho posto per aiutare la riflessione.

  1. Prima domanda: “Quale parte di te come leader viene messa in discussione?”
  2. Mettiti nei suoi panni: quali sono le sue ragioni?
  3. Considerate le sue performance lavorative, qual è la decisione migliore per l’azienda?

Tre domande, per qualcuno una più imbarazzante dell’altra probabilmente. Ma a volte ciò che mi scomoda è ciò che mi serve.
La crescita, del resto, deriva da un errore grave, che si è deciso di risolvere e non ripetere. E gli errori che ci possono far crescere non sono solo tecnici, ma anche relazionali.

Posso infatti migliorare, ad esempio, la conoscenza della suite Office e gravi errori di utilizzo mi rallentano e inficiano la mia produttività; ma se sbaglio il comportamento e/o la comunicazione con un mio dipendente, questo può danneggiare non solo la sua produttività, ma anche lo sviluppo del suo potenziale, del suo talento.

Le domande chiave per il libero professionista

Allo stesso modo spesso i liberi professionisti che seguo si ritrovano a dover gestire delle situazioni in cui si sentono sguarniti, nudi. Si ritrovano davanti dei clienti o dei competitor che o per ragioni caratteriali o per situazioni logistiche pongono all’attenzione situazioni roventi. L’esordio quando mi chiamano è sempre lo stesso:

“Avrei bisogno di confrontarmi con te sul rapporto con un cliente…”

Le persone con cui lavoro da diversi anni hanno maturato la consapevolezza che la bilancia non è in squilibrio per via del cliente un po’ “pazzerello”; sanno pure che li aspetta una sessione di domande e riflessioni in cui dovranno mettersi in gioco nuovamente; e che un altro pezzetto della loro personalità vivrà un altro “giro di vite“.

Con il conforto di domande giuste, riescono a illuminare zone d’ombra che toglievano loro il sonno o a raggiungere soluzioni che migliorano la loro performance lavorativa.

Le domande sono le stesse di prima. Vediamole nel dettaglio.

Le domande di coaching che fanno luce

Prima domanda – “Quale parte di te come leader viene messa in discussione?”

Quale parte di me è stata messa in discussione da quel cliente? Quale punto dolente ha toccato facendomi sentire inadeguata, insicura, inutile, ecc? Sono tutte situazioni potenzialmente dannose per il proprio umore, la propria giornata lavorativa, la futura notte di sonno, se vogliamo… Porsi questa domanda significa uscire allo scoperto con se stessi, dismettere un possibile habitus di ipocrisia: è come andare dal dentista per un dente cariato: è inutile tenerselo lì insieme al dolore.

Seconda domanda – Mettiti nei suoi panni: quali sono le sue ragioni?

Se mi metto nei suoi panni, quali sono le ragioni che scorgo? Qui è dura: racconterò in un prossimo post una trattativa lavorativa veramente eloquente in tal senso. Per ora ci basti questo: la benevolenza è un fattore chiave dell’autostima; se non guardo l’altro con occhi di intelligenza sociale, se vedo nell’altro solo una prestazione lavorativa possibile e non una persona, ogni passo è una mancanza di autenticità; se il vantaggio non è reciproco, il conflitto relazionale sarà sempre in agguato dietro l’angolo. È uno scenario tipico di chi ha difficoltà a riscuotere i suoi crediti, ad esempio. Ci torneremo.

Terza domanda – Considerate le sue performance lavorative, qual è la decisione migliore per l’azienda?

Se guardo al lavoro che stiamo portando avanti, qual è la soluzione migliore, quella cioè che conviene a tutti per la crescita imprenditoriale, dei dipendenti e la performance economica?
Teniamo sempre di vista il fatto che il lavoro, come recita lo stesso codice civile, è prestazione lavorativa in cambio di adeguata retribuzione; quindi in nessun caso ci può interessare la speculazione psicologica fine a se stessa.
Ad esempio: si prendono in considerazione i parametri relazionali eventualmente, solo e soltanto per ritornare sulla via più “conveniente” per il percorso aziendale che abbiamo deciso di intraprendere. Le diatribe personali alla ricerca dell’avere ragione possono tranquillamente essere buttate nel cestino prima di entrare nei luoghi di lavoro. I miei 2 cent sulla permalosità.

L’ascolto attivo: il motore che muove tutte le cose

Rimane che alla base di tutto ci vuole una grande capacità di ascolto. Ascolto di se stessi, ascolto da parte mia di tutto quanto mi viene riportato, ascolto del dipendente (o del cliente), ascolto delle ragioni aziendali/imprenditoriali.

Qualcuno insomma dovrà assumersi questo onere, ormai per alcuni quasi démodé, del pensare.